Carlo Cubeddu - Sassari.

“Per conoscere un luogo non è sempre necessario esserci stati”.
Seppur carica di un’apparente contraddizione, questa affermazione si scopre pregna di potenziali possibili e spesso illusorie concretizzazioni.
Nel nostro tempo infatti, il battage mediatico e una non meglio precisata globalizzazione ci danno sempre più illusione di poter essere ovunque e in qualsiasi momento, attraverso immagini, video o ancora “cimeli”, trovati magari nel grande magazzino sotto casa ma che, giunti da orizzonti lontani, conservano, così almeno ci pare, esotici sapori. 

La cosa assurda è forse l’inconsapevolezza con la quale ci portiamo addosso questo bagaglio che diventa tanto più pesante quanto più se ne realizzi la presenza, magari attraverso il famoso “effetto cartolina”. Ma si, quello che si prova davanti al Colosseo, o alla Torre di Pisa, o ancora immersi nel mar di Sardegna; quella sensazione per cui la tanto agognata meta del nostro peregrinare si rivela né più né meno come ce l’aspettavamo dopo averla vista in tv!

Con questo stesso spirito, ahinoi, è facile affrontare un primo impatto con la realtà in-immaginabile della Sierra Leone. Inizialmente infatti, gli occhi non fanno grandi percorsi di scoperta ma si lasciano piuttosto guidare da panorami inaspettatamente familiari, da scenari imprevedibili e già tanto speso (forse troppo spesso) scorti magari proprio da quella finestra sul mondo chiamata tv. E così niente, o quasi, sembra davvero stupirci; del resto a chi non è capitato di vedere, ancora una volta in tv o magari per strada, donne come regine che camminano con ceste enormi o anche solo minuscoli oggetti miracolosamente in equilibrio sulla testa? Chi ha sentito un’improvvisa ondata di malinconia alla vista di tanti bambini scalzi, seminudi, così incredibilmente piccoli davanti alle telecamere che li scrutano mentre loro, inaspettatamente le inondano di sguardi (da cartolina) quasi fossero capaci di superare ogni distanza e arrivare dritti al cuore di chi li osserva? Chi non ha provato una volta almeno lo stupore di realizzare che l’Africa non è solo deserto ma anzi, un universo intero solo apparentemente immobile?

Tutte queste sensazioni, già provate, tornano dunque a galla mentre l’occhio, quasi deluso, cerca qualcosa non visto ma che deve pur esserci da qualche parte! Come se ciò non bastasse, a stravolgere l’emotività preventivata che si confronta con un film solo apparentemente già visto, contribuisce la riscoperta di poter essere delle vere star! Il volontario, uomo bianco che arrivi in Africa, viene spesso accolto, infatti, come un superiore che porterà buone notizie e magari qualcos’altro di più pratico. E cosi ci si trova immersi in un turbinio di voci, sguardi, mani tese in un gesto ormai meccanico ma sempre pregno di rinnovata speranza. Forse è questa la prima sensazione inattesa che si sente in Africa, quella di potersi sentire ‘supereroi’, seguita subito dopo da un’altra sensazione ben più pungente: quella di sapersi non solo eroi ma in qualche modo, almeno in parte, responsabili di tanta diffusa miseria. E così il passato, quello dei libri di storia che narrano di così tanta umanità ridotta in schiavitù, ma anche quello del singolo che narra di tanti possibili gesti di solidarietà negati, improvvisamente ci ricorda che tutto siamo tranne che supereroi.

Una volta sventato il pericolo di un delirio di folle onnipotenza, ecco dunque il primo vero regalo che l’Africa sa fare: un ridimensionamento che spiazza, un’acquisizione di consapevolezze che sovvertono l’ordine al quale il mondo “civile” ci ha abituati. Ci si ritrova così a pensare che la situazione avrebbe potuto avere ruoli invertiti, con il civilissimo uomo bianco implorante un aiuto imprescindibile, senza il quale rimediare alle follie di un passato apparentemente remoto sarebbe impossibile. Che fare dunque? Come porsi nel giusto modo in questa terra che pensavamo di possedere e che ci spoglia di ogni certezza? Come porsi verso la humanitas sospesa tra il desiderio di riscatto e l’abitudine all’attesa? Che fare insomma nel momento in cui realizzi che tra te e quegli occhi non c’è più nessun rassicurante schermo e che quelle mani, così piccole e magre e sudice, sono davvero lì davanti a implorare anche solo un po’ di attenzione? Verrebbe voglia di scappare, questa è la verità.. verrebbe voglia di accettare la propria naturale limitatezza che scardina ogni precedente possibile sensazione di invincibilità e correre via lontano, per non vedere e non sentire più quell’ondata che, inattesa, ci sconvolge e ci catapulta in realtà che pensavamo di conoscere ancor prima di averle toccate con mano..

In fondo era prevedibile: come si può conoscere qualcosa, o ancor di più qualcuno di così lontano? C’è infatti un abisso tra l’Africa e il resto del mondo, un abisso che ne rende difficile, quasi impossibile la comprensione. Non si tratta di semplice arretratezza, o di mancanza di risorse, no; si tratta piuttosto di un’incapacità di adeguamento a standard che non si riesce a sentire propri. Del resto, se da una parte è difficile capire, dall’altra lo è altrettanto essere capiti. Soprattutto perché in Africa si è africani e si fa fatica non poco, in questo luogo dove la diversità non è considerata come discriminante, ad accettare l’omologazione che, magari involontariamente, cerchiamo di diffondere. Ecco perché non ha senso rimanere delusi da una mancata capacità di cogliere il nostro entusiasmo nei modi che vorremmo.. nessuno sarebbe davvero felice di vedere la propria casa invasa da “grandi” architetti magari pronti a ristrutturarla ma che ne ignorino la storia, l’essenza, lo spirito. L’Africa è anche questo. E’ uno specchio che ci ricorda che l’impegno sincero non aspetta né vuole ricompense, e che nessuno è indispensabile ma tutti possiamo essere, anche solo per un istante, comunque utili.

..Seguite il mio consiglio, non andate in Africa, non andate a cercare sensazioni forti perché potrebbero essere ancora più forti; non andateci per sentirvi utili perché scoprirete di essere inutili, non andateci per guardare perché vedrete voi stessi e le vostre debolezze.. Se poi però proprio non resistete all’idea, andate per imparare..
Troverete un mondo popolato da creature del sempre, che portano nelle mani le linee della vita e della morte in inspiegabile armonia; creature capaci di una fierezza che prescinde dal portafoglio, e di una forza fisica e spirituale che non ha bisogno di anabolizzanti né di psichiatrie.. troverete la terra rossa come il sangue eppure quasi mai violenta se non nella sia dirompente forza rivelatrice, la terra che ti ricorda saccheggi mai finiti e che nonostante tutto ti accoglie materna ed eloquente nei suoi silenzi assordanti..

troverete la Vita, una vita follemente possibile che va avanti, fiduciosa nonostante lo sfascio in cui si è saputo gettarla..

E troverete infine la verità; quella che ricorda che scappare non serve a molto ma che un gesto, anche piccolo e apparentemente insignificante può essere fondamentale per una rinascita da troppo tempo rimandata..

Racconto tratto dal libro Opotho, volontari in Sierra Leone

         

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