Marcello Merucci – Roma. 

Probabilmente non avremmo mai raccontato il nostro incontro con la Sierra Leone, se Don Ignazio non ci avesse chiesto di farlo. E non è affatto facile raccogliere e mescolare le esperienze e le sensazioni dei vari membri di quel numeroso equipaggio, planato a Lungi Town in un caldo pomeriggio di febbraio. A me spetta l’onore di ripercorrere, per sommi capi e a nome dei colleghi, questa meravigliosa esperienza, che ci ha sicuramente cambiati.

La nostra avventura nel continente nero era iniziata il 9 di febbraio e, in sequenza veloce e drammatica, avevamo incontrato le tristi realtà dell’Angola e della Nigeria. La Sierra Leone, terzo approdo, ci spaventava particolarmente a causa della mancanza di informazioni generiche circa la logistica e l’assistenza tecnica di cui avremmo avuto bisogno nel corso di quel soggiorno. La nostra unica certezza era quella di essere giunti nel paese più povero del mondo.
Vinti da un senso di disagio e diffuso timore, atterrammo tra le palme altissime e lussureggianti di Lungi dove, ad attenderci, trovammo uno striscione scolorito dal sole, sul quale campeggiava la scritta “welcome”. Il terminal cadente e un vento caldo e teso erano la cornice di quell’immagine mentre un silenzio irreale sembrava avvolgere quella vita. Pensai che quel luogo era immerso in una grande e perenne quiete.

Post-volo e pratiche burocratiche espletate, stipati in un vecchio pulmino superammo il cancello arrugginito dell’aeroporto, trovandoci da subito immersi in un formicaio umano nel quale una vita sfortunata e serena regnava incontrastata. Dopo esserci sistemati in un piccolo albergo a poche centinaia di metri dall’aeroporto stesso, decidemmo di calpestare il suolo africano, suscitando, in pochi istanti, la curiosità di moltissimi bambini emersi da quel nulla fatto di strade polverose e povere abitazioni costruite con fango e materiali di fortuna. Ai nostri occhi si erano presentati

sfoggiando meravigliosi sorrisi con al semplicità di chi non ha null’altro da donare.

Dignitosi come adulti nel loro incedere di adolescenti. Qualche carezza, una mano stretta, un saluto e poi ancora sorrisi fino a che la nostra iniziale ed ingiustificata diffidenza si era dissolta in quel vento, adesso più accogliente.
Quasi a malincuore, col sopraggiungere delle tenebre, che in Africa per fortuna conservano ancora un fascino antico, ci eravamo ritirati nelle nostre stanze e, il mattino seguente, eravamo andati a cercarli di nuovo. Così, nel vociare festoso di un mercatino, nacque l’idea di una partita di calcio “Sierra Leone – Italia”, da disputarsi in spiaggia. Alla gara aveva assistito un pubblico rumoroso che aveva esultato ad ogni marcatura di entrambe le squadre. Al match era seguito un terzo – tempo spontaneo, in compagnia di tutti i bimbi del villaggio ancora eccitati per aver condiviso con noi quel momento fatto di gratitudine e succhi di frutta e di una birra per i più grandi. “Ragazzi, il tempo stringe. E’ tardi e dobbiamo andare!” – con piglio deciso Glauco ci richiamava al dovere e quasi svogliatamente ci eravamo incamminati verso l’albergo. Eccoci pronti a volare di nuovo, destinazione Dakar. Il pulmino avanza a velocità sostenuta verso l’aeroporto mentre un nutrito gruppo di bambini e ragazzi che vorrebbero ancora salutarci lo insegue e ci insegue e in quella polvere ogni tanto scompare. Prima di riabbracciare il nostro velivolo, dalla scaletta dello stesso, mi volto cercando di fotografare con lo sguardo tutto quel verde. Accanto a me Andrea, Ezio e gli altri sfoggiano la stessa malinconica espressione. Forse in quel verde cerchiamo di scorgere sguardi e abbracci stranamente familiari. Rivedo Leo che abbraccia Andrea e gli chiede di non dimenticarlo “don’t forget about me”. “Caspita – penso- forse mi sto commuovendo”. Mi volto cercando di evitare quell’emozione improvvisa, inattesa. Le porte si chiudono, gli scivoli sono armati. Il velivolo si muove. Ho sempre pensato che quello fosse un arrivederci, piuttosto che un addio. Proprio per questo, insonne dopo essere giunto a casa, ho cercato freneticamente in rete qualcosa che mi permettesse di stabilire un contatto con quei bambini così lontani eppure così vicini. Con le pochissime informazioni che gli stessi mi avevano fornito sono giunto a Lovebridges ed a tutti voi. A distanza di due mesi da quel primo incontro sto vivendo il privilegio di tornare in Sierra Leone per riabbracciare queste piccole e sfortunate creature che con un sorriso continuano a chiederci aiuto e che in una strada assolata e polverosa di Lungi, loro così piccoli ed indifesi, per primi mi avevano parlato con riconoscenza di Stefania, di Ignazio e di Stefano…

Racconto tratto dal libro Opotho, volontari in Sierra Leone

         

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